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Stop ai campionati: una sconfitta per tutti, ma, soprattutto, per lo Stato
12/11/2007 20:59
Se qualcuno, dopo la straordinaria vittoria nel mondiale di
calcio 2006, ce lo avesse preannunciato, non gli avremmo potuto
credere. Eppure, potrà sembrare una boutade, ma la realtà è proprio
questa: ci stanno ammazzando lo sport più bello del mondo. E badate
bene che a farlo non sono, come a un primo, superficiale esame si
potrebbe credere, i soliti tifosi idioti che con lo sport non hanno
niente a che fare, ma proprio coloro che, invece, dovrebbero fare di
tutto per difenderlo. C'è chi crede - e per questo pensiero viene anche
pagato - che con la sospensione a tempo indeterminato dei campionati di
calcio di ogni categoria la violenza verrà automaticamente estirpata
dal calcio e dagli stadi. A credere in questa ipotesi ci sono fior di
personaggi politici i quali, in tutta la loro vita, non hanno mai preso
a calci un pallone e nella stragrande maggioranza nemmeno uno stipendio
guadagnato con il sudore della propria fronte.
Eppure basterebbe poco per capire che la morte di Raciti a Catania prima, quella del giovane tifoso laziale ieri ad Arezzo (nella foto la stazione di servizio dove è stato assassinato Gabriele Sandri),
poi, in comune non hanno il pallone, ma un ben altro denominatore:
l'assurda deriva in cui sta precipitando questa società, questo Paese,
dove non esiste più un solo individuo capace di insegnare che la prima
regola fondamentale di ogni convivenza civile è quella dell'assunzione
delle proprie responsabilità. Raciti è morto durante degli incidenti
scatenati da gruppi di delinquenti che amano dipingersi come tifosi, ma
che, in realtà sono solo dei criminali senza alcuna giustificazione.
Sandri, il supporter biancoceleste è deceduto, possiamo solo supporlo -
ma se altrimenti fosse ci troveremmo davanti a un omicidio premeditato
- per la superficialità/imbecillità, comunque la si voglia definire, di
un agente di polizia che, chissà per quale ragione, ha pensato di
sparare un colpo di pistola, forse, senza nemmeno sapere perché e per
una rissa scatenatasi tra gente che con l'intelligenza umana non ha
niente a che spartire. Ebbene, se quest'agente, che si dice essere
padre di famiglia, avesse non gli attributi, ma una coscienza, non si
nasconderebbe e nemmeno accetterebbe che lo Stato, ipocrita, lo
proteggesse, ma siederebbe davanti ai microfoni e ammetterebbe la
propria colpa, spiegherebbe le ragioni del suo gesto. Non restituirebbe
la vita al tifoso, ma contribuirebbe a calmare gli animi e a far capire
che cosa è veramente accaduto nell'area di servizio dell'autostrada.
Così come il ministero degli Interni, invece di inventarsi le peggiori
giustificazioni, racconterebbe pura e semplice la verità che, per chi
non lo sapesse, non è né di destra né di sinistra, ma sempre
rivoluzionaria.
E invece no. Lo Stato non può permettere che qualcuno, un suo
servitore, né se stesso, si assuma la responsabilità dell'errore
commesso. E poiché non sa che pesci prendere, si affida ai suoi Soloni
per decidere che è meglio stare fermi una settimana, tanto, per la
serie A, c'è la nazionale, per la B e la C chi se ne frega. Così, con
un'altra brusca frenata, chissà che quelle teste calde dei tifosi di
mezza Italia non finiscano per capire che è ora di finirla di fare
casino. Peccato che per quei tifosi la violenza è una categoria
esistenziale, uno stile di vita, un modus vivendi e operandi dal quale
non si può prescindere. In una società dove i riti iniziatici si sono
ridotti al conseguimento della patente di guida o all'esame, si fa per
dire, di maturità, ecco che il campo di calcio e lo stadio, con le loro
pertinenze, diventano il palcoscenico sul quale rappresentare il
nichilismo del nostro tempo, l'incapacità ad accettare la normalità
senza comprendere che proprio la normalità, oggi, è diventata
trasgressione.
La morte del tifoso laziale, così come quella di Raciti
(qualcuno ricorda, forse, Vincenzo Paparelli?), non può non farci
pensare al senso della vita. Come si può morire per uno sport o per
colpa di uno sport? Ma così è, se vi pare. Al di là della casualità,
c'è la rabbia per la scomparsa di un'altra vita umana. Di questo siamo
coscienti e per questo siamo tristi e amareggiati per l'ennesima
tragedia. Purtuttavia il vero funerale che andiamo a celebrare è quello
che ha investito lo Stato o, meglio ancora, quel che resta di un
abbozzo di Stato. Roma si è trasformata, ieri sera, in una zona
off-limits dove i violenti l'hanno fatta da padroni; a Bergamo gli
ultras hanno chiesto e imposto di fermare la partita. Se sotto il
profilo sostanziale potrebbe anche essere comprensibile l'equazione
Raciti-Sandri per cui è giusto sospendere in entrambi i casi le
partite, formalmente non esiste da nessuna parte, in nessuno Stato che
vanti la sovranità come uno dei propri elementi costituitivi,
l'ammissione di una zona o più zone franche dove si preferisce non
intervenire per ragioni di opportunità. La verità è che non solo non
esiste più il senso dello Stato, ma non esiste più uno Stato. Quando un
Paese non è in grado di imporre la propria legge anche mediante l'uso
della forza, allora non è più in grado di difendere se stesso né i
propri cittadini. Le conseguenze di questo agire sono, moralmente e
socialmente, devastanti. E' come riconoscere la propria impotenza e,
quindi, l'incapacità ad affrontare certe situazioni se non previa
trattativa con chi non riconosce l'autorità medesima dello Stato. Da
qui la constatazione e il rischio costante che basti qualcuno, riunito
anche in un gruppo di modeste dimensioni, per dettare le proprie
ragioni e rivendicare chissà quale richiesta davanti a uno Stato
imbelle e incapace di decisione. La fiducia in uno Stato - e questo non
riguarda solo i tifosi violenti, ma anche la delinquenza comune e
quotidiana - è un patrimonio che una società si conquista con gli anni,
a fatica, a carissimo prezzo e che, poi, può dilapidare in un attimo.
Ne sa qualcosa la nostra storia, con quel micidiale 8 settembre 1943,
quando il re, la Regina, la casa Reale tutta, politici e generali
abbandonarono Roma, l'Italia e le forze armate nelle mani dei tedeschi
per fuggire al Sud e mettersi sotto la protezione degli alleati.
Ebbene, che fiducia può avere il singolo cittadino, nell'anno di grazia
2007, nella protezione dello Stato se lo Stato ha paura di combattere
quei fenomeni di criminalità più o meno organizzata, più o meno
radicata che albergano all'interno delle sue viscere?
E' ufficiale: domenica 18 novembre i campionati di A, B e C
osserveranno una giornata di riposo. In Italia, evidentemente, il
problema è solo il calcio, mentre criminalità, politicanti da
strapazzo, droga, prostituzione, furti, omicidi, mafia, camorra,
immigrazione selvaggia, disprezzo delle regole, degradazione morale e
civile e chi più ne ha ne metta, sono fenomeni marginali che avvengono
solo intorno al rettangolo di gioco. Ipocriti.
Gazzetta Lucchese