Leviamo i ganzi di loggia
Il punto di Aldo Grandi
Se partire è un po' come morire, tornare è un po' come rinascere
03/12/2008 08:33
Il calcio è solo uno sport e, come tale, deve essere preso e
considerato. Guai a prenderlo troppo sul serio. E' anche un gioco,
purtroppo, questo sì, maledettamente serio. Su un campo si sfidano
ventidue giocatori il cui unico scopo è quello di battere l'avversario,
costi quel che costi. Pier Paolo Pasolini sosteneva che il calcio era
ed è l'ultima rappresentazione sacrale. Sono parole impegnative e,
forse, per certi versi incomprensibili a chi, allo stadio, va per
godersi lo spettacolo di una partita che, sempre e comunque, va molto
al di là di ciò che appare.
Eppure è e resta uno dei pochi ed ultimi palcoscenici dove, a
dispetto delle raccomandazioni, delle ipocrisie, delle elucubrazioni
mentali ed esternazioni esaltate di chi vorrebbe sostituirsi ai veri
protagonisti sul rettangolo di gioco, si disputa un rito inalterato nel
tempo. u quel campo verde ciò che conta sono i polmoni, la classe, la
volontà, la rabbia e la grinta. E' vero, i calciatori, in genere, non
sono dei geni e, tutto sommato e a detta di molti, nemmeno tanto
intelligenti - anche se bisognerebbe intendersi su ciò che significa
intelligenza - ma sono loro gli eredi dei vecchi gladiatori solo che
non esiste un pollice verso o alzato che determina la vita e la morte
degli sconfitti. Il pollice è l'approvazione o l'odio e i fischi del
pubblico, in questo del tutto simile, fatte le dovute distinzioni, con
il popolino romano che affollava gli anfiteatri, primo fra tutti il
Colosseo.
Eppure questi novelli gladiatori del pallone rappresentano
ancora una sorta di primordiale istinto di conservazione, di volontà di
non soccombere e di natura solo in parte contaminata dalla civiltà
delle macchine. Il calciatore è, forse, il più esasperato testimone del
consumismo dei nostri tempi, ma tutto questo fa il pari con l'estrema
naturalezza dei gesti che, sovente, sconfinano nell'ignoranza. Perché,
quindi, questo panegirico? Perché domenica, nel corso della partita tra
Sporting Lucchese e Sporting Juventus, è parso di tornare a rivivere un
po' di quell'atmosfera gioiosa - in proporzioni ancora infinitesimali
rispetto al passato recente - che aveva contraddistinto gli ultimi
anni. Se partire è un po' come morire, e la Lucchese Libertas non solo
è partita, ma è, addirittura, deceduta, allora tornare al Porta Elisa,
verde come prima, bello come sempre, vuol dire davvero una rinascita,
uno scrollarsi di dosso tutta la polvere e la merda che gli
avventurieri incapaci, presuntuosi, orgogliosi, senza soldi e senza
dignità, oltre che senza vergogna, veri e propri impuniti di una paese
che ha fatto e fa dell'impunità una bandiera da sventolare e di cui
vantarsi. Piano piano, tra l'indifferenza e la tristezza, tra
l'amarezza e, talvolta, la disperazione per ciò che avrebbe potuto
essere e ciò che, invece, è stato ed è, qualcosa sta tornando e sta
rinascendo. Ci vorrà del tempo per guarire le ferite, le più difficili
da rimarginare perché sono quelle del cuore, ma la strada è quella
giusta e il futuro sembra essere meno cupo e grigio di quanto non fosse
fino a pochi mesi fa.
E' vero, guardando alla prima divisione e alla serie B vedi
facce che conoscevi e frequentavi, con cui parlavi e che interrogavi ad
ogni fine partita. Quando tutto finisce tutto, in realtà, può e deve
rinascere. Solo chi cade, del resto, può risorgere. Ci vorrà del tempo,
magari anni, ma stadio o non stadio, Giuliani o Giurlani che dir si
voglia, ai lucchesi il calcio non lo toglierà nessuno.