Galleria Rossonera
Oltre cento anni di ritratti e personaggi
Loredano Orsi e il suo Giglio... rossonero
06/02/2008 16:57
Loredano Orsi è, a Lucca, un'istituzione. Da anni è il gestore del ristorante Giglio nella omonima piazza del centro storico, ma, soprattutto, è un tifoso rossonero della prima ora: uno di quelli, però, che non urla, non grida, non protesta, uno che ama il proprio lavoro e rispetta quello degli altri, che interpreta la lucchesità come una caratteristica dello spirito e del modo di comportarsi più che come un distintivo da portare cucito sulla giacca fatto solo per dare lustro e farsi lusingare. Chi conosce l'uomo, non può non apprezzarne la rettitudine e la precisione nella professione. Chi non conosce il tifoso, beh, questa è l'occasione per colmare la lacuna.
Loredano, domanda a bruciapelo: che cosa vuol dire, per lei, tifare Lucchese?
'Ho sempre tifato, da bimbetto. E' l'unico divertimento che ho per uscire un po' dal ristorante. Vado alla partita tutte le domeniche, a volte arrivo quando è già cominciata, ma cerco sempre di andarci'
La prima partita cui ha assistito.
'Ero piccolissimo e la Lucchese era sempre in serie A. Ti parlo del 1948-49. Fu l'anno prima della scomparsa del Grande Torino. Ricordo ancora quella formazione, composta da Viola, Bertuccelli, Cuscela, Rosellini, Nay, Scarpato, Merlin, Toth, Fabian, Magni e Conti'.
Come ha fatto a rimanerti impressa la formazione?
'Perché da bimbetto la guardavo sempre. Era il tempo che la Lucchese aveva molti giocatori in prestito da Torino e Juventus'.
Chi l'ha incanalata al calcio?
'Fu un mio zio che ora ha novantacinque anni e che ora abita a Torino. Era un patito della Lucchese, perché lui era di Sant'Andrea di Compito e andava sempre allo stadio. Partiva in bicicletta e arrivava al Porta Elisa. Mi montava in canna e si raggiungeva insieme lo stadio. Al ritorno, vista la salita impervia, scendevamo e la facevamo un po' a piedi e un po' sulle due ruote. All'epoca di macchine ce n'erano davvero poche'.
La soddisfazione più grande che le ha dato la Lucchese?
'Quando, con presidente l'avvocato Frezza, negli anni Sessanta, siamo tornati in serie B. Poi agli inizi degli anni Novanta, con Orrico'.
Come trascorre la domenica in cui la Lucchese gioca tra le mura amiche?
'Fino alle 14,15 resto al ristorante. Poi, se vedo che la situazione è abbastanza calma, salgo in bici o sul motore e vado allo stadio. Altrimenti vado per il secondo tempo. Ho l'abbonamento da alcuni anni mentre prima ci andavo e facevo il biglietto all'ultimo minuto'.
Lei è anche un imprenditore-commerciante di un certo livello. Ha mai pensato ad entrare nella società rossonera?
'No per mancanza di tempo'.
O anche per una questione di soldi?
'Certo, ci vogliono delle grosse disponibilità che io non ho. Se le avessi, sono onesto, mi piacerebbe seguire da vicino le sorti della mia squadra'.
Perché non si riesce a trovare un lucchese disposto a investire danaro nella squadra della propria città?
'Ce ne sono stati ben pochi. Ho conosciuto Della Santina. Lui ci lasciò tanti di quei soldi. A quei tempi, dove ora c'è la Camera di Commercio, lo stabile era di sua proprietà. Dovette venderlo per salvare capra e cavoli. Il calcio è un rischio continuo. Apprezzo chi fa il presidente, ma i lucchesi evidentemente preferiscono lasciar perdere'.
Altra domanda: perché Livorno, Pisa, Siena, Empoli, Pistoiese, città più piccole e meno ricche di Lucca, sono arrivate o sono ancora in serie A mentre la Lucchese a stento resta in serie C?
'Me lo sono chiesto anch'io. Forse avranno gli uomini giusti. Vedi Empoli ad esempio'.
E' solo una questione di uomini?
'Mi ricordo quando Anconetani era a Lucca. Lui voleva fare alcune cose, ma non glielo permisero. Lui se ne andò a Pisa e lo portò in serie A. Nel calcio bisogna rischiare, e Anconetani lo fece. Qui da noi, però, gli fu impossibile'.
Non crede che questo dipenda anche dalla mentalità e dal carettere chiuso dei lucchesi?
'Sì, può anche darsi. Per me non c'è nessuno che sente un richiamo particolare o è portato per questo tipo di sport'.
Non è, però, che Lucca eccella in qualche altro sport. Anzi. E' sempre rimasta ai margini.
'Non me lo so spiegare. Forse siamo un po' distaccati e l'attenzione è verso altre cose. Per me, ad esempio, viene prima il lavoro, e se sono impegnato, magari finisco per saltare anche la partita. Diciamo che siamo attaccati al lavoro piuttosto che allo stadio'.
Cosa vuol dire, per lei, lucchesità?
'Siamo lucchesi, nati e cresciuti a Lucca, e cerchiamo sempre di vedere Lucca nelle posizioni migliori possibili, ma non sempre ci si riesce'.
Cosa manca a questa città per raggiungere il Top?
'Non è che poi manchi tanto. E' una città vivibile, dove si lavora e si vive ancora bene. La Lucchese, forse, non va, perché dovrebbe essere, almeno, in serie B. Con una squadra nella formazione cadetta arriverebbero più tifosi e anche l'immagine della città ne guadagnerebbe'.
Come vede Braglia allenatore?
'Io lo vedo una persona preparata, un buon allenatore, forse anche lui non ha i giocatori adatti, però come tecnico lo stimo perché dovunque è andato ha sempre fatto bene. Per lui parlano i risultati'.
Qual è il tuo sogno rossonero nel cassetto?
'Poter tornare in serie A. Allora sì che tutte le domeniche, lavoro o non lavoro, sarei al Porta Elisa. E qualche volta, forse, andrei anche fuori. Questo vuol dire anche una grande passione per il calcio. Noi, da piccoli, si giocava sui campetti sotto le mura. Il ruolo che mi piaceva di più era quello di attaccante'.
Esiste, secondo te, una relazione tra il cibo e la passione sportiva?
'Certo. Esiste perché il cibo, quando è buono, lo mangi volentieri, così come, se la tua squadra vince, sei contento. Sono due cose piacevoli che si completano a vicenda. Quando si mangia bene è un piacere per il palato così come, se vai allo stadio e vedi una bella partita, è un piacere per gli occhi'.
Aldo Grandi