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Bruno Russo, tredici campionati in rossonero: un giocatore con pochi piedi, ma con tanta testa

13/03/2008 11:18

Dici Bruno Russo e ti viene in mente quel ragazzo piuttosto schivo, lontano dalla luce dei riflettori, forte come un toro, coriaceo come un bisonte, che andava su e giù per il campo a catturare e respingere palloni con indosso i colori rossoneri. Dici Bruno Russo e pensi che questo calabrese classe 1966, originario di Mirto Crosia, provincia di Cosenza, ha militato nella Lucchese per quindici stagioni, di cui tredici da giocatore e due da allenatore in seconda, collezionando, sul terreno di gioco, tante presenze quante ne ha fatte il bomber per eccellenza Roberto Paci. Anzi, no, Paci ne ha fatte una ventina in più. “E’ vero – esordisce Russo – Me ne sono accorto solamente in occasione del centenario della Lucchese. Paci mi ha superato per poco, se lo avessi saputo avrei giocato un altro anno, solo per superarlo e battere il record, diventare il calciatore rossonero con più presenze sarebbe stato bellissimo”.

Come nasce Russo calciatore?

“Cominciai a giocare presto, poi, a sedici anni andai al Corigliano Schiavone, il paese di Gattuso. Ero un centrocampista. Sicuramente se non avessi fatto il calciatore avrei studiato. Non so cosa, ma avrei studiato”.

Quando hai capito che il calcio avrebbe potuto essere la tua vita?

“Quando andai a Cosenza in C1. Il primo anno fui aggregato alla prima squadra e disputai solo poche partite, il secondo, invece, giocai l’intero campionato. Eravamo a metà degli anni Ottanta”.

Com’era il mondo del calcio?


“Erano diverse le persone, gli atleti, gli uomini. Era un’altra generazione. Il giocatore apparteneva alla società, quindi, era proprio un altro mondo. Erano le società a decidere le sorti dei calciatori i quali dovevano inevitabilmente mettersi in mostra per farsi confermare anche per l’anno successivo”.

Si guadagnava bene?

“Io guadagnavo per vivere. Il primo anno al Cosenza prendevo un milione al mese, la seconda stagione tre milioni al mese. Direi che, a parità di categoria, non ci sono grandi differenze con quanto accade oggi. Dopo andai a Taranti, in serie B. Era il 1987 e avevo appena vent’anni. Restai due anni in Puglia, poi cambiai aria”.

Non sei mai stato un giocatore tecnico, però, hai costruito lo stesso una carriera niente male. Quali altri doti hai messo sul piatto?

“Sono sempre stato consapevole dei miei mezzi e dei miei limiti. Io sapevo quali erano le mie qualità. Sapevo, cioè, di non essere un giocatore tecnicamente dotato. Allora, sin da allora, basavo tutto sulla mia volontà di arrivare, sulla fame, sulla voglia di non mollare, sul carattere. Se ho giocato tredici campionati di serie B qualcosa vuol dire”.

Più testa che gambe, quindi?

“Diciamo più testa che piedi, visto che le gambe le ho sempre avute e anche piuttosto forti”.

Rimanesti al Taranto per due anni…

“Già, venni via perché conoscevo il sud e le realtà del calcio meridionale, non vedevo prospettive, non tanto economiche quanto di carriera. Così scelsi di salire a Spezia in C1 dove feci un gran campionato. Al termine della stagione il Taranto mi avrebbe rivoluto, ma io firmai per la Lucchese due giorni dopo la fine del torneo. C’era stato il placet di Orrico e Pino Vitale con Egiziano Maestrelli mi vollero a tutti i costi”.

Quanti anni avevi?

“Avevo ventidue anni. Da allora sono sempre stato alla Lucchese, con tredici campionati da giocatore e due da allenatore in seconda”.

Diciamo pure che a Lucca hai messo le radici.

“Vero. E’ una bellissima città, mi trovo bene io, si trova bene la mia famiglia. Mia moglie l’ho conosciuta quando ero a Taranto e insieme siamo venuti a Lucca”.

Qual è stata la più grande emozione in rossonero?

“L’anno in cui abbiamo vinto il campionato di serie C e la Coppa Italia di categoria”.

Esiste l’amicizia nel calcio?

"Penso di sì, ho degli amici veri conosciuti nel mondo del calcio".

Qual è stata la più grande delusione con la maglia della Lucchese?

“La retrocessione in serie C”.

Tu e Corrado Orrico: un rapporto durato a lungo.

“Era un rapporto bellissimo. Perché? Bisognerebbe conoscere il personaggio per capirlo. Sono stati anni intensi quelli vissuti con lui allenatore, inoltre ero uno di quelli che aveva scelto lui”.

Rammenti qualche aneddoto?

“Ricordo una volta, prima del mercato di novembre, quando mi chiamò e mi disse che avrebbe fatto comprare un giocatore per fregarmi il posto. Io gli risposi che per fregare il posto a me ci voleva uno che corresse tanto e lui mi ribatté che il calcio non è mica il giro d’Italia”.

Che tipo era Orrico?

“Cercava di farti un po’ paura perché lui era grande e grosso, un omone come si diceva, ma io, da buon terrone, non subivo passivamente le sue sfuriate, ovviamente sempre nel dovuto rispetto dei ruoli. Una volta, rientrando da una trasferta andata male, era un Como-Lucchese di C1, sul pullman scoppiò una discussione tra alcuni giocatori e io mi intromisi. Lui mi si piazzò davanti e mi diede uno spintone per cacciarmi lontano dicendomi che non dovevo intromettermi. Cosa feci? Lasciai perdere. Se era un padre padrone? Direi proprio di sì”.

Eppure gli siete tutti molto affezionati.

“Sì, perché è grazie anche a lui che siamo diventati quel che siamo. La verità è che eravamo tutti ragazzi di belle speranze e grazie a lui e alla mentalità che ci ha dato siamo stati capaci, ciascuno, di fare la propria carriera”.

Cosa fa adesso Bruno Russo?

“Dopo la fine dell’esperienza con il Castelnuovo mi sono messo a frequentare il corso per ottenere il patentino di prima categoria così da poter allenare in tutti i campionati. Era una priorità”.

Cosa serve a un giocatore che, a fine carriera, deve fare i conti con la realtà di tutti i giorni lontano da un campo di calcio?

“Serve sempre la testa e la consapevolezza che deve adattarsi a vivere come fanno gli altri, con le loro regole, facendo né più né meno quello che fa la gente ogni giorno. La testa è importante sempre”.

Cosa consiglieresti a un giovane che vuol fare il tuo stesso mestiere?

“Non è cambiato molto il calcio da quando giocavo io. Anzi, secondo me non è cambiato niente. Ho sempre pensato che il calcio, e lo sport in generale, se gli dai centodieci, ti può restituire anche uno, ma se gli dai novanta, non ti restituisce nulla. Questa è una regola fondamentale”.


Aldo Grandi

Fanini Group

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