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Piero Braglia: un giramondo con le radici in famiglia. Ritratto-intervista al tecnico rossonero

13/09/2007 23:11

Intelligente. Arguto. Sincero. Simpatico. Burbero. Insofferente. Grintoso. Tutto fuorché diplomatico. Anzi, la diplomazia non fa parte del suo Dna. Stiamo parlando di Piero Braglia da Grosseto, via Firenze, Montevarchi, Cremona, Catanzaro, Chieti, Pisa, Lucca e chissà quante altre città. Mai giacca e cravatta, nemmeno nelle occasioni con la O maiuscola. Sempre semplice, pronto alla battuta e al sorriso, apparentemente aggressivo, ma solo per difendersi da eventuali attacchi. Non è forse vero, come recita anche Paolo Di Canio nella sua Autobiography, che chi mena per primo mena due volte?

Mister, cominciamo dall'inizio, da quando, appena adolescente, si trovò improvvisamente a dover affrontare un dolore molto più grande di lei: la morte di suo padre.

"Avevo quattordici anni. Ero stato prelevato dalla Fiorentina. Quando mi arrivò la notizia della morte tornai a casa, ma solo per pochi giorni. Poi dovetti rientrare a Firenze. Cominciai a capire già allora che non c'è tempo per fermarsi a piangere, che bisogna andare avanti, e che chi resta non può rinunciare a farlo".


Maestri. Lei ricorda spesso un uomo che alla Fiorentina ha dato tanto: Egisto Pandolfini. Che tipo è?

"Lo chiamo ancora tutti gli anni, gli sono immensamente grato. Senza di lui non sarei mai riuscito a fare il calciatore. Credeva in me, nelle mie possibilità. Dopo un anno a Cremona volle riportarmi a casa e, dopo un po' di anticamera, mi fece entrare nel giro della prima squadra. Erano i primi anni Settanta. Tutto un altro ambiente e tutta un'altra vita".

In che senso?

"Nel senso che noi eravamo diversi rispetto ai giocatori di oggi, avevamo, essenzialmente, un modo diverso di divertirci. Oggi girano troppe cose, alcune delle quali non sono particolarmente edificanti. Mi riferisco, ad esempio, alla droga, cocaina ovviamente. Basta vedere la positività di alcune analisi. Ai tempi nostri, al massimo, avevamo il whisky".

Lei parla spesso di fame, di voglia di vincere e di arrivare. Perché insiste sempre su questo tasto?

"Perché è quello che fa la differenza. Io me la ricordo la fame. Avevo tredici, quattordici anni, e prima di andare alla Fiorentina, sul tavolo di casa, mangiavamo le stesse cose a pranzo e a cena. Ed era già tanto. La miseria, quella vera, apparteneva a qualche anno prima, anni cinquanta e sessanta, ma anche ai nostri tempi non c'era granché da scialare. Io ricordo sempre mio padre quando, la mattina alle quattro, d'inverno come d'estate, si alzava, si infilava il giornale sotto il maglione e saliva sulla sua motocicletta per andare a comprare le bestie che, poi, rivendeva. faceva, infatti, il sensale di bestie da macello ed era uno dei più bravi di Grosseto. Già, Grosseto. Mi ricorda mia madre, che è ancora viva, mio fratello, l'infanzia e la prima adolescenza. Ci sono tornato ogni tanto, ma, ultimamente, quando ci vado con le squadre che alleno, ricevo una pessima accoglienza e mi domando sempre come mai".

Dicevamo la fame...

"La fame, appunto. Che vuol dire anche voglia di arrivare, di migliorarsi, di vincere, di lottare. I calciatori di oggi perché dovrebbero farlo? Non gli manca nulla, hanno tutto, fanno una vita ricca di comodità. Chi glielo fa fare? E, soprattutto, vai a farglielo capire che quando sei in campo sei uno contro uno, uno di fronte all'altro, e le motivazioni diventano, a quel punto, fondamentali. La Lucchese ha ragazzi che potrebbero giocare in categorie superiori e che, invece, si accontentano, non hanno voglia di crescere. Come mai? Vita troppo comoda e poca voglia di sacrificarsi, questa è la verità, ma vale per tutti, per i giocatori come per i nostri figli. Io ho il terrore che crescano senza rendersi conto di cosa vuol dire la sofferenza. Io l'ho provata e so che quello che ho adesso è il frutto dell'impegno, della caparbietà, della rabbia e della volontà di non accontentarsi".


Firenze, fine anni Sessanta inizi anni Settanta. Nelle giovanili della Fiorentina giocava un ragazzino proveniente da Grosseto che faceva disperare tutti. Sua madre, che adesso ha 85 anni, cosa pensava di suo figlio?


"Era disperata. Mi ricordo quando arrivai al pensionato a Firenze, in via Carnesecchi, proprio vicino allo stadio, dove alloggiavo insieme agli altri compagni. Egisto Pandolfini arrivava sulla sua auto, o magari qualche altro dirigente, la mattina a prelevarci per portarci a scuola, alla Dino Boncompagni. Rammento il primo giorno, una maestra che non mi aveva nemmeno detto buongiorno, ma che quando mi vide mi disse che a lei se io ero della Fiorentina non importava nulla e che mi avrebbe trattato come gli altri, né più, né meno. Io mi girai verso gli altri e dissi: 'Ma questa qui cosa c.... vuole?' Fatto sta che non la sopportavo e cominciai a fare a modo mio. Pandolfini mi portava all'ingresso della scuola e io entravo, mi infilavo nel bagno, aprivo la finestra e scappavo. Ho fatto così per cinque mesi, dopodiché Pandolfini se ne è accorto e mi ha mandato a lavorare, insieme agli altri, alla Torrefazione Belardinelli, ma anche lì siamo stati cacciati perché era più il caffè che buttavamo via di quello che usavamo per le tazzine".


Ha qualche rimpianto?

"Nessuno. Che rimpianto dovrei avere? Ho una bella famiglia, faccio il lavoro che mi piace e vengo anche pagato bene, ho un presidente che stravede per me. Cosa posso desiderare di più. Io, poi, sono abituato a guardare avanti".

Rimorsi?

"Nessuno".


Desideri?

"Portare questa squadra il più in alto possibile. Per il suo presidente, soprattutto, e per i tifosi. Siamo noi che dobbiamo riconquistarli e io mi aspetto già da domenica una grande reazione dopo la brutta prova di Ancona".

La serie B. Lei l'ha vista da vicino.

"Sono stato esonerato dopo cinque gare a Catanzaro. Quest'anno se avessi voluto avrei potuto scegliere tra due formazioni della serie cadetta. La verità è che a me non me ne frega niente. Io ho sposato un progetto e credo, in particolare, in una persona, in questo presidente che si merita delle soddisfazioni e io farò il possibile per dargliele".

Che padre è Piero Braglia?

'Un padre normale, che quando è a casa parla poco, lo stretto indispensabile. Del resto anche mio padre era così, uno che parlava poco, ma questo conta relativamente. Contano molte altre cose. Io amo la mia famiglia, appena ho un attimo di tempo me ne torno a casa perché io a casa sto bene e non ho bisogno di andare chissà dove'.

A.G.

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