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Oltre cento anni di ritratti e personaggi

Enrico Castellacci, un filosofo prestato allo... sport

29/09/2007 16:01

Dici Enrico Castellacci e pensi alle notti mondiali, a quella straordinaria avventura che, poco più di un anno fa, portò la coppa del mondo in Italia per la quarta volta: una gioia immensa, un propulsore capace di iniettare nello spirito di un popolo intero la voglia di mettere da parte preoccupazioni e problemi per provare, ancora una volta, l’ennesima, a ripartire.

E’ passato un anno e qualche mese da quei giorni indimenticabili. Che cosa ha significato quell’avventura?

‘Posso cominciare con un aneddoto. Quando vincemmo la semifinale con la Germania, la Federcalcio ci fece sapere che, comunque fosse andata la finale, avremmo dovuto festeggiare a Roma. Con Marcello e i giocatori ci riunimmo in una stanza del nostro albergo per discutere questa proposta. Emerse un solo desiderio: la squadra avrebbe festeggiato solo se avesse vinto. E questo non perché non avesse, comunque, conseguito un risultato prestigioso, ma perché la squadra era così consapevole delle proprie forze che avrebbe accettato con troppa delusione un secondo posto e non avrebbe, quindi, avuto lo stato d’animo per festeggiare. Questo per far capire quali fossero lo spirito della squadra e la forza psicologica di questi ragazzi frutto del lavoro fatto da Marcello’.

Cosa ti è rimasto di quel titolo mondiale?

‘Mi è rimasta soltanto la sensazione di essere stato un uomo fortunato ad aver vissuto in prima persona, sia umanamente sia professionalmente, la vicenda più eclatante che in vita mia potesse capitarmi. A livello medico ero già all'apice, dal punto di vista medico-sportivo era il massimo che potessi sperare’.

Tu sei un medico che, sulla scrivania, tiene la Vita dei filosofi di Diogene Laerzio. Curioso per uno che fa un lavoro, essenzialmente, pratico e a stretto contatto con la realtà.

‘Amo la filosofia e preferisco quella post socratica. Amo più la filosofia di quel periodo di quella moderna probabilmente perché sono un uomo del passato che ama vedere il filosofo emblematicamente vestito solo di un telo bianco e sotto l’ulivo che parla con i suoi allievi. E’ un’immagine che dà la sensazione eterna della filosofia, del grande tema della vita e della conoscenza’.

Il tuo rapporto con la Lucchese ha radici lontane…

‘Vero. Dal 1988-89, anno in cui entrai a far parte dello staff medico. Un anno importante, una società gestita allora da Egiziano Maestrelli con Pino Vitale direttore generale, società solida che ha fatto la storia degli ultimi anni, che dalla C1 è passata alla serie B, che ha vinto la Coppa Italia, che ha festeggiato a Palermo il doppio passaggio, che ha dato soddisfazioni ai tifosi. Non posso scordare le trecento persone che accolsero la squadra davanti allo stadio. In quel momento ho visto veramente la città vicina alla squadra. Sono stati, poi, nove anni di paradiso in serie B, anni esaltanti in cui abbiamo sfiorato la A e lottato per non retrocedere. Poi, purtroppo, l’inferno della C’.

Anni di ricordi, di persone, di rapporti umani.

‘Sì, ma tutto o quasi, nel mondo del calcio, è rappresentato dagli uomini’.

Cos’è l’amicizia per Enrico Castellacci?

‘L’amicizia è una cosa molto seria che va anche al di là di quella che viene definita coma una conoscenza approfondita. Dico amicizia e penso a Pino Vitale, per me come un fratello. Sono rimasto legato a tanti personaggi che hanno vissuto e lavorato alla Lucchese e con alcuni ho anche un rapporto di amicizia: Lippi, Fascetti, Orrico anche se quest’ultimo era veramente un personaggio con cui mi scontravo, ma era anche una figura stimolante. Fortunatamente ho avuto un buon rapporto con tutti gli allenatori e, credetemi, non è cosa facile’.

Ormai, sebbene originario dell’isola d’Elba, ti si può considerare lucchese d’adozione. Perché, secondo te, altre realtà come Livorno, Pisa, Siena, Empoli, Pistoia hanno raggiunto il vertice mentre la Lucchese non ci è mai riuscita?

‘Nove anni in serie B non è cosa da poco. Ci è mancato, pensandoci a così tanto tempo di distanza, quel piccolo particolare in più che avrebbe potuto portarci a toccare la serie A. Io ho pensato che con la società di Maestrelli e Pino Vitale avremmo potuto raggiungere qualche traguardo. In più avevamo una squadra che sarebbe stata competitiva anche in serie A. Basta guardare a quei giocatori e a che cosa hanno fatto negli anni seguenti, dimostrandosi capaci di militare con ottimi risultati nel campionato maggiore. La verità è che a noi mancò l’occasione’.

Marcello Lippi, altra figura importante per te.

‘Marcello per me è un amico fraterno, un altro fratello, un personaggio e una persona cui mi sono legato tanti anni fa, ai tempi della Lucchese, e con il quale sono sempre stato in contatto anche se, successivamente, su percorsi diversi, io medico, lui calcistico. Questi percorsi, poi, si sono incrociati di nuovo grazie alla stima che lui ha sempre avuto di me come medico. Marcello conoscerà trentamila medici sportivi, ma ha lottato e combattuto per avere me al suo fianco nell’avventura della nazionale. Come ha più volte detto, lo ha fatto per motivi professionali, non certo per l’amicizia. Io non finirò mai di ringraziarlo per la stima che ha avuto in me e che mi ha permesso di calcare la scena nazionale’.

Hai 56 anni e ottenuto il massimo sotto il profilo professionale. Quali altri desideri puoi avere? In sostanza che senso ha la vita quando uno ha avuto tutto o quasi?

‘Ammetto che sia professionalmente sia privatamente ho avuto il massimo, questo grazie anche alla mia famiglia e a mia moglie che, crescendo i nostri figli, ha permesso che io concentrassi tutte le energie sulla mia professione. Dico ciò a costo di sembrare stucchevole, ma non lo sono. Quanto al senso della vita, vorrei ricordare una frase di Seneca: ‘Chi guarda sempre al futuro non sa vivere il presente’. Cioè non riesce a godersi i momenti veri, Chi è assillato sempre dal fare di più, dal raggiungere di più, non sa godersi i momenti di serenità che anche le cose semplici sanno dare. Tornando a Seneca non guardo al futuro, ma cerco di vivere nella maniera più serena ed equilibrata un presente che è vero, mentre il futuro è sempre incerto’.

Sembra che qui a Lucca non ci sia pace...

'Purtroppo spesso si usa fare polemica sempre e comunque, si vuol vedere il futuro sempre nero. Io su questo non sono d'accordo'.

Ma cos'è la Lucchese?

'La Lucchese è un patrimonio della città e del campanile. Ogni città ha una squadra perché è anche con una squadra che si ha il senso della città, della patria, del simbolo, della bandiera. Una squadra ti dà il senso di appartenenza e la Lucchese non può essere diversa dalle altre. Non posso credere che quella città che era impazzita il giorno della nostra promozione in B, dove tremila persone vennero ad accogliere la squadra dopo la vittoria a Palermo, in cui centinaia di giovani si sono buttati nelle fontane dalla felicità, possa oggi essere incapace di sostenere una squadra in un momento difficile per cercare di uscire dall'inferno della C. Uno dei momenti più brutti della mia vita calcistica, fu quel palo preso da Carruezzo in quel famoso finale dei play-off con la Triestina. Mi ci vollero due mesi per riprendermi da quel colpo. Non volevo più saperne di calcio perché mi rendevo conto che, persa quell'occasione, sarebbe stato incredibilmente difficile risalire la china. Poi, però, riprende la fiducia, ti riprendono gli stimoli e ti senti attaccato addosso, ancora nella pelle i colori rossoneri. Ed è per questo che oggi sono e dobbiamo essere consapevoli che possiamo riportare la squadra in alto, perché oggi, checché se ne dica, checché si polemizzi, abbiamo una squadra tecnicamente molto valida, abbiamo un allenatore che tutti considerano un numero uno e abbiamo, mi si permetta, una società e un presidente'.

Al. Gra.

Nella foto: il professor Enrico Castellacci con Simone Inzaghi a Berlino

 

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