Galleria Rossonera
Oltre cento anni di ritratti e personaggi
Riccardo Malfatti, un medico con il camice rossonero
09/09/2008 08:21
La Sporting Lucchese ha un nuovo medico. Anzi, uno che i
colori rossoneri li conosceva bene, ma che a un certo punto preferì
farsi da parte. Si tratta del dottor Riccardo Malfatti, quarantotto
anni, lucchese doc, con tanto di attestato di nascita in Lucca drento,
laureato a Pisa con specializzazione in medicina dello sport e ora
dirigente medico al Campo di Marte nel Dipartimento di Medicina e
traumaotologia dello sport, guidato dal professor Enrico Castellacci,
storica conoscenza del mondo rossonero. Malfatti si è riavvicinato ai
colori rossoneri solo nella ultime settimane, ma ne parla come di un
qualcosa che non ha mai abbandonato, almeno dentro di sé. Un legame
forte, quello con la Lucchese, tanto quanto quello con il calcio in
generale. Una passione, questa, che si porta dietro da sempre.
"Avevo
pochi anni e, come tutti i ragazzini, ho iniziato a giocare a pallone.
Prima alla SS. Annunziata, nel piazzale della chiesa, poi, con il
trasferimento della mia famiglia a S.Anna, sulle strade intorno alle
case Gescal: che sfide memorabili su quell'asfalto. Dopo ho iniziato la
trafila nelle squadre giovanili: Aquila S.Anna, S. Macario - pochi anni
prima che ci arrivasse Favarin - Porcari. Ero un difensore che non
avendo grandi doti tecniche la buttava sul fisico".
Poi sei passato a fare l'allenatore.
"Sì,
è stato sul finire degli anni ottanta. C'era Orrico alla Lucchese e
presi il patentino di terza categoria seguendo i corsi allo stadio e
finendo nel settore giovanile dell'Aquila S. Anna, poi fusasi con il
Farneta, del Lido di Camaiore, del S. Alessio e infine - ma stavolta
allenando la prima squadra in prima categoria e promozione - del
Porcari Montecarlo".
Veniamo alla Lucchese, partendo dal tuo rapporto con essa nelle vesti di tifoso.
"Tieni
conto che sono nato nel 1960 e già a metà anni sessanta andavo allo
stadio in compagnia di mio nonno. Per me era una festa incredibile. Ho
tante sensazione ancora vive e tutte piacevoli. Il clima era diverso,
per dirtene una, in quel caso eravamo però già a meta anni settanta,
vidi un Lucchese-Livorno in mezzo agli ultras amaranto in una piccola
curvetta ospiti allestita dove ora c'è la Est. Arrivai, chiesi il
permesso agli ultras, specificando che ero tifoso rossonero, e nessuno
mi torse un capello quando segnò la Lucchese".
Tra i ricordi belli cosa metti?
"I
campionati delle gestioni Maestrelli, senza dubbio. Gli anni di Orrico,
la partita incredibile contro il Foggia di Zeman, i numeri di
Simonetta, uno che con il pallone faceva quello che voleva. Che classe,
ragazzi. Sono questi i ricordi indelebili".
E veniamo al tuo arrivo alla Lucchese nelle vesti di medico, inizi anni duemila, se non sbaglio.
"Esatto,
fu il professor Castellacci che mi chiese se ero disponibile a dare una
mano al settore giovanile e accettai volentieri. Avevamo un sacco di
squadre da gestire ed eravamo io e il dottor Luporini. Dal settore
giovanile iniziai poi a seguire la prima squadra, dove c'era il dottor
Tambellini, in alcune gare di coppa Italia e poi sempre più di
frequente".
Anni dove gli allenatori si alternavano uno a stagione.
"Anche
di più, visto che a volte ci furono cambi in corsa. Durante la mia
permanenza ho visto transitare, tra gli altri, Viscidi, Baldini,
D'Arrigo, Jaconi e Nicoletti. C'è stato modo di legare con alcuni di
loro che ricordo con piacere, a partire da Viscidi che curava ogni
dettaglio in modo molto meticoloso, come pure Bruno Russo e anche
Baldini che ritengo non abbia avuto molta fortuna, ma per me aveva
seminato bene. Ho un ricordo ottimo anche di Ciccio Bellucci: è una
persona come poche, è un nobile d'animo, mi verrebbe da dire uno che ha
ancora lo spirito del contadino, di chi ha una parola sola e che vale".
Poi, con l'arrivo di Fouzi Hadj ti allontani. Dirlo ora sembra persino ovvio, molto meno allora.
"Guarda,
io mi sono trovato benissimo con Emilio Gioia, un grandissimo signore,
che avrebbe potuto fare molto per la Lucchese lo avessero messo nelle
condizioni di fare; davvero un uomo di grande spessore. Con l'arrivo di
Fouzi Hadj non mi sono trovato bene sin da subito. Ho sperato di
sbagliarmi, ma non mi son piaciute tante, troppe cose e così ho
preferito andarmene quasi subito. Landini provò a convincermi a restare, ma io non mi
ci sentivo più in quei panni. Man mano che i mesi passavano ho avuto
conferma che avevo visto bene. Ho sperato non fosse così, perchè è la
squadra della mia città, anche se non sono più andato allo stadio e mi
sono limitato a seguire la gare in tv e sui giornali".
Era inevitabile questo epilogo amaro?
"Credo
di sì, non c'erano più margini per recuperare nulla. Nessuno, ad
eccezione forse della Finanza, sa come stavano e stanno esattamente le
cose. Mi auguro solo sia possibile riprendere almeno il nome. Credo che
questa società farà il possibile per riaverlo".
E ora come si riparte da questo cataclisma e da queste macerie?
Dobbiamo
solo pensare a questa nuova categoria in cui siamo finiti e remare
tutti insieme per allontanarcene il prima possibile. Domenica guardavo
i nostri tifosi e li vedevo praticamente muti. Li capisco, ci vorrà un
po' ma bisogna reagire, ripartire e riemergere. E' durissima, lo so,
come sarà durissimo vincere il campionato, con ogni squadra che contro
di noi darà il massimo. Ma sono molto ottimista: la società si sta ben
organizzando, abbiamo un allenatore ottimo e un direttore sportivo che
conosce come pochi la categoria. Oltre naturalmente ad un gruppo di
giocatori molto valido".
Cosa ti ha dato professionalmente l'esperienza di medico di una società sportiva?
"Molto,
io, tra l'altro, lo sono anche della Scuderia Balestrero. Ma
indubbiamente il mondo del calcio che ho conosciuto prima come
giocatore e allenatore dilettante e poi come medico segna un passaggio
importante nella crescita professionale. Mi ha arricchito molto poter
seguire le patologie sul campo: dal manifestarsi del problema sino alla
sua risoluzione. In ospedale questo non è sempre possibile".
Quanto pesa la psicologia nel calcio e in particolare nella cura degli infortuni?
"Molto
in generale e in particolare. In generale, credo che le dinamiche
psicologiche dei calciatori e di tutto l'ambiente siano alla base dei
risultati. A conferma di ciò, da buon interista, prendo ad esempio la
cura maniacale che pone per questo aspetto Mourinho. Nella cura degli
infortuni lo è altrettanto, con una particolarità: a differenza dei
pazienti di tutti i giorni, con i giocatori non si deve minimizzare
troppo sulle entità dei recuperi e la gravita degli infortuni.
Altrimenti si corre il rischio che cerchino di forzare i tempi di
recupero, che sono comunque gli stessi più o meno per tutti, atleti e
non atleti".
Da quando hai iniziato ad oggi sono stati tanti i passi in avanti della medicina sportiva?
"Sono
stati notevoli, basti pensare all'accorciamento dei tempi per le
diagnosi, per il recupero degli infortuni e all'allungamento delle
carriere dei calciatori: una volta era impensabile arrivare a 35 anni
sostanzialmente integri. Certo, i traumi distorsivi del ginocchio
rimangono un problema, ma sono ormai superabili. Semmai sono piuttosto
i problemi cartilaginei alla caviglia che rimangono più difficilmente
curabili".
La domanda è di stretta attualità, dopo che
anche Stefano Borgonovo, centravanti degli anni novanta, si è ammalato
di SLA, la sclerosi laterale amiotrofica, una malattia terribile che
non lascia praticamente scampo: che rapporto c' è tra questo morbo e il
calcio?
"Non saprei, francamente ho qualche dubbio
sulla scientificità delle statistiche che sono state diffuse. In altre
parole, non sono del tutto convinto che questa malattia colpisca il
mondo del calcio piu che altrove. Va detto che quando attacca persone
così note fa un po' più scalpore. E' brutto dirlo ma è così. E poi va
aggiunto che al momento, purtroppo, non si conosce ancora la genesi di
questa malattia".
Calcio e doping: chiacchiere o realtà?
"Credo
che in tutti gli sport ad alto livello c'i sia un problema di questo
tipo. Ed è difficile da debellare. Certo, negli sports in cui la
componente fisica è determinante, il fenomeno è più evidente. Ma anche
nel calcio non sottovaluterei il problema delle competizioni
ravvicinate. La strada da seguire penso sia quella della guerra
frontale accompagnata da campagne di educazione massiccia, anche perché
temo che il problema sia persino più grave tra gli adolescenti e gli
amatori delle varie discipline. Senza dimenticare che c'è un problema
di armonizzazione legislativa: se in Italia il doping è sanzionato
duramente, in Spagna, tanto per fare un esempio, no. Non so se è un
caso che spesso le squadre iberiche evidenziano un dinamismo fuori dal
comune".
Fabrizio Vincenti