Galleria Rossonera

Oltre cento anni di ritratti e personaggi

Francesco Bellucci, una carriera luminosa e un addio con tanta rabbia e delusione: "Il più grande rimpianto? Non aver picchiato qualcuno"

16/12/2008 15:52

Francesco Ciccio Bellucci può apparire, per chi non lo conosce, un tipo piuttosto scontroso. In realtà è solo riservato, ma con un cuore e una generosità grandi così. Bellucci viene dalle Marche, terra di mezzadria, dove ogni centimetro quadrato di zolla costa sudore e fatica immense. Ciccio viene da Osimo, provincia di Ancona, dove l'agricoltura è sempre stata l'attività più importante e dove il passaggio da mezzadri a proprietari tutt'altro che semplice. Ci sono poche persone, almeno nel mondo del calcio lucchese, pulite come lui, oneste al punto di credere anche all'incredibile di chi avrebbe voluto che l'incredibile fosse possibile. Ritrovandosi, poi, con un palmo di naso.

Quando hai iniziato a giocare a pallone?

"Quando avevo dieci anni, nell'Osimana, provincia di Ancona. Ero piccolo e grosso, quindi, mi mettevano dappertutto. L'ambiente in cui sono cresciuto era tranquillo, la mia era una famiglia di lavoratori, attaccata alla terra e all'agricoltura".

Cosa avresti fatto nella vita se non fossi diventato un calciatore?

"Sicuramente se non avessi intrapreso questa strada avrei fatto quello che ha fatto mio padre, cioè il muratore. Avrei seguito mio padre e mio zio nel coltivare la terra e nel mettere mattone su mattone"

Quando hai iniziato a capire che il calcio avrebbe potuto diventare qualcosa di più di un semplice divertimento?

"L'ho iniziato a capire quando, a 14 anni, ho giocato la prima partita in Interregionale, sempre con l'Osimana. Dopidiché, poco tempo dopo, si fece avanti il Bari che era stato promosso in serie A e mi acquistò dall'Osimana. Avevo 15 anni e lasciai casamia per andare in Puglia. I miei genitori furono d'accordo, anche se a malincuore, ma alla fine hanno accettato e mi sono stati vicini. Devo dire che ne è valsa la pena".

A Bari cosa succede?

"Sono andato subito alla Primavera allenato da Pasquale Loseto, il quale mi portò, in estate, in ritiro con la prima squadra allenata da Salvemini. Feci, così, il primo ritiro con una formazione di serie A. Ricordo che fu un'esperienza bellissima. Io venivo da un paesino e trovarmi, all'improvviso, in una grande città e in una squadra con tanti campioni, mi fece un effetto straordinario. Avrei voluto non finisse mai. Rammento Antonio Di Gennaro, Carlo Perrone, l'attaccante Monelli, Massimo Carrera, Joao Paolo, Alessandro Mannini, Maiellaro. Quella volta imparai parecchio. Non era come oggi, io ero un giovane vecchio stampo, tutti mi stavano vicini e mi aiutavano, soprattutto mi insegnarono il rispetto per quelli più grandi di te".

Cosa vuol dire 'non era come oggi'?

"I giovani di oggi, forse a causa di tutto il contesto, sono già presuntuosi ancora prima di arrivare. Vogliono essere subito delle prime donne e il calcio fa fatica proprio per questo motivo. Una volta non c'era la gavetta, ma c'era il rispetto per quelli più grandi di te. Per esempio, quando io giocavo nella Primavera e mi allenavo con la prima squadra e con giocatori già famosi, a fine allenamento chi raccoglieva tutto erano sempre i più giovani. E non c'era bisogno che qualcuno me lo dicesse. Era normale che fosse così. Invece ora se non li prendi e ce li porti, non vanno a prendere i palloni. Perché si sentono già arrivati".

Esordio in serie A.

"La prima partita da titolare in serie A la giocai a Napoli, nel gennaio 1992. La settimana priecedente mi fu detto che, probabilmente, avrei esordito. Ero partito da inizio stagione con la prima squadra, poi a febbraio, non avevo ancora 18 anni, la grande occasione. Giocai nel ruolo di difensore, si marcava a uomo una volta. Il primo giocatore che marcai in serie A fu Gianfranco Zola, sotto un'acqua torrenziale. Mi ricordo che mio padre era partito da Osimo in treno per vedere la partita. Perdemmo 1 a 0 con gol di Careca su calcio di rigore".

Che effetto ti fece giocare al San Paolo?

"Lì c'ero stato in panchina quando giocava Maradona. Sono stati momenti favolosi, emozioni che ti rimangono dentro e che ricorderò per tutta la vita".

Non ti mise paura tutta quella gente sugli spalti?

"Forse quando sbucai dal tunnel, poi ero talmente concentrato a marcare Zola che tutto il resto lo dimenticai. Quando fischia l'arbitro, tutto finisce. La concentrazione è al massimo. Delle prime partite la cosa che mi rimase impressa è il tempo che sembrava volare. Quando arrivava il fischio finale ti sembrava di non avere nemmeno cominciato, talmente preso e concentrato uno era".

Quante presenze collezionasti in serie A quella stagione?

"Venticinque. Ho giocato a San Siro, a Firenze, Udine, un po' ovunque. Quell'anno presi un palo con la Juve con Tacconi in porta e il giorno del mio compleanno, il 23 febbraio, a Bari. Il primo gol lo segnai in Coppa Italia contro l'Empoli in trasferta. Un gol bruttissimo, dopo una mischia in area. Un difensore rinviò e la palla mi sbatté contro e finì in rete".

Come andò avanti la carriera?

"L'anno successivo andai a Cagliari, allenato da Mazzone. Anche lì mi trovai benissimo. Sempre in serie A. Il presidente era Cellino. Quell'anno centrammo la Coppa Uefa con un campionato strepitoso. In squadra con me c'erano Francescoli, Firicano, Gianluca Festa, in porta Ielpo, Gianfranco Matteoli, Pusceddu, Francesco Moriero, Cappioli, Lulù Oliveira. Disputai 18 partite e fu un'annata positiva. L'ambiente sardo era bello, l'unica cosa scomoda era l'aereo. All'inizio avevo paura di volare, poi diventò normale. A Cagliari rimasi quattro anni e l'anno successivo feci dieci gare in Coppa Uefa".

Come andò quell'anno in Europa?

"Ricordo la semifinale giocata con l'Inter. A Cagliari vincemmo 3 a 2. Zenga era in porta. Del Cagliari segnarono Criniti, Pancaro e Valdes. A Milano perdemmo due a zero con gol di Bergkamp e Fontolan. Fu una grande delusione, anche se essere arrivati lì era già moltissimo. Un'esperienza straordinaria, a Cagliari trascorsi quattro anni in serie A tutti meravigliosi".

Dopo Cagliari?

"Andai a Avellino in serie B. Mazzone andò a Roma dopo la Coppa Uefa e mi chiamò per andare a fare il quarti difensore: i due titolari e poi gli altri due, tra cui io, in panchina. Cellino non volle mandarmi perché ero un patrimonio societario. Alla fine è stata una fregatura e l'ultimo anno mi trovai a Avellino. Dovevo andare in prestito e, invece, ci fu il trasferimento definitivo".

Serie B con l'Avellino?

"Classifica positiva, per il resto lasciamo perdere. Una città dove non mi sono trovato bene. A fine anno tornai in Puglia, a Lecce, in serie B con Ventura. Lì mi trovai benissimo e vincemmo il campionato tornando in serie A. In squadra con me c'erano Lorieri, Francesco Palmieri, Francioso, Zanoncelli, Alessandro Cucciari. Di quell'esperienza ricordo la squadra. Loro avevano già vinto il torneo di serie C. Era una formazione di sconosciuti tranne Lorieri, ma era un gruppo talmente unito al punto da vincere sette partite di seguito".

Poi cosa accadde?

"L'anno dopo venne Prandelli come allenatore. Quello fu, per me, un anno particolare, perché l'estate contrassi l'epatite A per cui saltai quasi tutto il girone d'andata. La presi mangiando la verdura. Forse l'acqua con cui era stata lavata. Io feci tutto il girone di ritorno, però retrocedemmo in serie B. L'anno seguente arrivò Sonetti e tornammo nuovamente in serie A. Dopo ebbi dei problemi con il direttore sportivo Pantaleo Corvino. Fui io, comunque, a fraintendere delle cose ed essendo un marchigiano testardo, me ne andai a Treviso in serie B".

Quando arrivi a Lucca?

"Rimasi tre anni a Treviso, due in B e uno in C, poi un anno a Messina in B e, nel 2003, venni a Lucca in C con allenatore Maurizio Viscidi".

Perché, tra tutte le città dove hai vissuto, alla fine sei rimasto a vivere a Lucca? Solo perché è stata la tua ultima squadra o c'è anche qualche altro motivo?

"Prima non avevo figli e, quindi, mi muovevo come volevo io. A Lucca sono venuto con mia moglie e, ovviamente, dopo la nascita dei bimbi, con la scuola, abbiamo deciso di restare".

Di che cosa ha bisogno un calciatore per arrivare e mantenersi a certi livelli e, soprattutto, per non trovarsi, a fine carriera, con un pugno di mosche in mano?

"Ci vuole parecchia intelligenza, nel senso che negli anni buoni bisogna pensare che non sarà sempre così, e che, quindi, bisogna anche pensare al futuro. Quando entrano i soldi, cioè, fare in modo di non sperperare. Ci vogliono una famiglia e la tranquillità che una moglie e dei figli ti possono dare, servono anche la responsabilità che finisci per assumerti. Se posso dare un consiglio ai più giovani, è di cercare la donna giusta e di stare attenti a non bruciare quello che uno guadagna. La famiglia è importante perché ti fornisce un equilibrio. Nel calcio non puoi andare in discoteca tutte le sere e mangiare fuori, devi fare una vita regolare, non puoi uscire sempre. Sei un professionista e come tale ti devi comportare, devi avere rispetto per chi la domenica ti viene a vedere, per un bimbo che vuole, magari, diventare come te. Non puoi non dare l'esempio".

Le moglie dei giocatori sono delle sante?

"Bisogna trovare la donna giusta. Ce ne sono parecchie sante e da ammirare perché stare accanto a un giocatore non è facile, perché il giocatore è sempre a contatto con tante donne. Bisogna, quindi, avere fiducia reciproca, però la famiglia ha un ruolo fondamentale per la carriera, soprattutto a certi livelli".

Per te è stato così?

"Per me è stato così. Prima di sposarmi, se tornavo a casa e non trovavo nessuno, era un casino. Chiamavo l'amico, uscivo, ma il rischio è di sperperare tutto. Invece quando hai una famiglia cerchi di risparmiare e hai più responsabilità".

La Libertas Lucchese è finita nel peggiore dei modi. Cosa ti hanno lasciato e che cosa ti hanno tolto questi ultimi tre anni in maglia rossonera, prima come giocatore, poi come dirigente?

"Come giocatore sono contentissimo di aver fatto questa scelta, ho conosciuto amicizie importanti, tipo Deoma o Carruezzo, persone con le quali tutt'ora mi vedo e mi sento. Ho anche conosciuto persone fuori del calcio e mi trovo benissimo con loro. Come dirigente sono incazzato nero. Sono avvelenatissimo, incazzato, deluso, perché sono stato preso in giro da più persone alle quali ho dato la massima fiducia e dalle quali ho ricevuto solo bugie e promesse mai mantenute. E' una cosa che ho dentro e non riesco a digerire. Non ci riesco perché hanno rovinato una cosa fantastica. Si poteva fare calcio per dieci anni con persone serie e, invece, siamo a qui a domandarci come sia stato possibile rovinare tutto".

Progetti per il futuro?

"Cercherò di prendere il patentino e, poi, spero di poter fare qualcosa come allenatore. Questa stagione sarà difficile, spero il prossimo anno di iniziare con qualcuno".

Un giocatore finisce la carriera, tu ad esempio, a 34 anni, un'età in cui, la maggior parte dei coetanei, deve ancora realizzarsi. Come si vive questo passaggio dall'essere famosi e sulla breccia, al dover ricominciare una nuova vita?

"Io ho avuto un problema a un ginocchio e per questo ho dovuto smettere. Quindi ho intrapreso questa nuova attività come Team Manager e pensavo che sarebbe durata a lungo con la Lucchee. Invece tutto d'un botto è finita. Ora mi dedico alla famiglia anche se non è facile stare a casa, perché non sei abituato ed è dura".

Qual è il tuo più grande rimpianto?

"Di non avere picchiato qualcuno".

Ogni riferimento a cose o persone è puramente casuale?

"Chi vuol capire capisca, almeno mi sarei tolto qualche soddisfazione".

E la tua più grande gioia sportiva?

"Di aver calpestato tutti i campi più importanti d'Italia e di aver visto i più grandi campioni di questo sport. Queste emozioni nessuno potrà togliermele. A casa ho tutte le maglie dei campioni che ho marcato: da Van Basten a Batistuta, da Mancini a Cerezo, da Voeller a Skurhavy, da Carnevale a Casiraghi".

Al. Gra.

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