Galleria Rossonera
Oltre cento anni di ritratti e personaggi
Venturelli: "Non rifarei mai più quel gesto dopo la finale dei play-off con la Triestina. E' il rimorso più grande della mia carriera"
26/12/2008 18:20
Emanuele Venturelli (nella foto) è un saggio, uno
che, prima di tutto, ha un pregio: è consapevole dei suoi limiti, ma
non per questo rinuncia al tentativo di attenuare i suoi difetti.
Nativo di Barga, ma da sempre abitante a Coreglia, è uno di quei
giocatori che, magari, non arriveranno mai ad eccellere, ma sicuramente
sfrutteranno fino in fondo le loro possibilità e la propria carriera.
Ora, alla Sporting Lucchese, è il pilastro della difesa, chioccia, con
Alessandro Galli e Riccardo Belluomini, di quella covata di pulcini che
sta riportando i colori rossoneri nel calcio che conta. Venturelli,
oltre ad essere saggio, è anche simpatico, cosa che non guasta.
Un calciatore ha una carriera breve. Che cosa può fare per sfruttarla al massimo?
"Posso parlare per me. Io sono stato sempre consapevole dei miei
limiti. Ad esempio, sin da piccolo, non sono mai stato velocissimo. Del
resto la velocità è una dote naturale: c'è o non c'è e io non l'avevo
né l'ho mai avuta. Ragione per cui ho dovuto dedicarmi ad affilare ed
affinare quelle che sono le mie caratteristiche. Sbaglierei, quindi, a
cercare di fregare l'avversario nello scatto, mi brucerebbe quasi
sempre. Invece devo cercare di anticiparlo pensando prima a quello che
potrebbe fare. Così finisco per trovarmi in vantaggio senza dover
rincorrere. Non sempre riesce, ma la maggior parte delle volte sì. E'
anche questione di esperienza. Tutto questo per dire che chi, come me,
non ha le doti tecniche per emergere, ha bisogno della testa e della
volontà, della disciplina e del sacrificio. Deve, magari, arrivare al
campo mezz'ora prima degli altri e andarsene mezz'ora dopo".
Sei stato compagno di squadra di Giovanni Cipolla, un fantasista straordinario.
"Vero. Cipolla è uno che con la palla fa ciò che vuole. Quando vuole,
però. Deve, però, essere la giornata giusta. Diciamo che se io avessi
avuto le sue gambe e la mia testa, adesso, probabilmente, sarei in
serie A da un pezzo".
Una carriera, la tua, piuttosto lunga.
"Non mi lamento, anche se il mestiere di calciatore non è tutto rose e
fiori. Io ho avuto anche la fortuna di giocare in serie B, nella
Triestina, nell'Arezzo e nel Catanzaro, ma dopo l'esperienza in terra
calabrese ho deciso che non avrei mai più lasciato la Toscana. Ricordo
che andai a Catanzaro, soprattutto, perché mi offrirono un buon
contratto, da gennaio a giugno. Alla fine presi, come gli altri, un
solo stipendio, quello di gennaio, il resto non lo vidi mai. Erano più
i soldi che spendevo nei viaggi aerei per tornare a casa la domenica
sera".
Di che cosa ha bisogno un calciatore per riuscire ad affermarsi?
"Di tante componenti, la testa è la cosa principale, madre natura deve,
però, fornirgli anche delle qualità. C'è anche bisogno della fortuna,
ma è chiaro che bisogna cercarla".
Il tuo più grande rimpianto?
"Ho sempre detto che, siccome ho avuto un grande allenatore, Mario
Somma all'Arezzo, che l'anno seguente fu mandato via, se fosse rimasto
avrei potuto, con lui, arrivare alla serie A. E lo avremmo potuto fare
insieme proprio con l'Arezzo".
E il tuo più grande rimorso?
"Non ho dubbi: il gesto che feci quel giorno nella finale con la
Lucchese, contro il pubblico. Fu una cosa che mi sono portato dietro
per anni e che anche nel pullman al rientro dopo la vittoria, non mi
fece gustare appieno la vittoria. Fu un gesto istintivo che non farei
più. Non lo dico perché sono a Lucca, ma credo veramente che nella mia
vita calcistica sia stato il rimorso più grande".
Te la ricordi quella partita?
"Me
la ricordo sì. Fu una gara dove, sicuramente, avemmo fortuna per come
andarono le cose. Se Toni non avesse sbagliato quel rigore nei
supplementari, non saremmo qui a parlarne. Fu una gara rocambolesca,
mai capitata nella mia carriera né prima né dopo, fui attentissimo, mai
raggiunto un livello così alto di tensione e adrenalina e anche il mio
gesto fu dovuto a quella tensione. Forse, nel complesso, noi della
Triestina eravamo più forti, ma non in quella partita. A parte il mio
gesto, di quella gara ricordo tutto. Fu una gara allucinante sotto
tutti i punti di vista. Ricordo lo stadio pieno ed io, essendo di
Lucca, non lo ricordavo così gremito".
C'era qualche tuo amico nella Lucchese di quel giorno?
"No".
Esiste, secondo te, l'amicizia nel calcio?
"Io credo che possa anche esistere. Molti dicono di no, ma io a Trieste
ho conosciuto quello che è il mio più caro amico, Paolo Scotti, che ha
giocato con me a Trieste e anche all'Arezzo. Era il mio compagno di
reparto. Lui ha smesso e si dedica ad altre cose".
Cosa farai dopo aver appeso le scarpette al chiodo?
"Mi piacerebbe restare nell'ambiente e fare, magari, l'allenatore. Poi vedremo cosa succederà".
Adesso che, finalmente, hai indossato la maglia rossonera, ti senti come se avessi riparato a quel gesto?
"Terminata quella finale, che era a giugno, a gennaio dell'anno
seguente cercai in tutte le maniere di far arrivare la mia voce per
poter venire a Lucca. Era il mio desiderio, mi sento di Lucca anche se
garfagnino e mi auguro di chiudere, fra un anno o chissà quando, la
carriera nella mia città. Voglio riportare la Lucchese nel calcio che
conta e questo potrebbe essere, se accettato, un gesto riparatore per
quello che ho fatto in quella partita".
Gazzetta Lucchese