Galleria Rossonera
Oltre cento anni di ritratti e personaggi
Toni Carruezzo: "Quella volta che arrossii davanti a Maradona"
22/03/2009 17:34
Proseguiamo l'intervista-testimonianza a Toni Carruezzo. Oggi esce la seconda parte.
Toni Carruezzo è stato, per Lucca e la Lucchese, una bandiera.
Da sventolare sempre, ammainare mai. Un calciatore che si è dimostrato
in grado di attirare su di sé gioie e problemi della squadra e della
società, che per il suo modo di essere, e di ascoltare, ha saputo
infondere ai compagni e ai tifosi, anche nei momenti meno rosei, la
voglia di non mollare mai. Pugliese, riservato, diffidente per natura
verso chi non conosce, è una persona che crede molto nell’amicizia, ma
in quella vera, fatta di complicità, simpatia e fiducia reciproca, ma,
soprattutto, di stima. Poche parole all’inizio, molte alla a mano a
mano che la confidenza aumenta, Eupremio Carruezzo, per tutti Toni, è
un ragazzo semplice, che alle luci della ribalta preferisce quelle
degli affetti che, per lui, non si spengono mai. Ha una volontà di
ferro, un ottimismo geneticamente acquisito, per sua fortuna e per chi
lo conosce da vicino. Non accetta i soprusi ed è anche parecchio
orgoglioso. Ci vuole tanto per conquistarsi la sua stima, poco,
pochissimo per perderla. Avrebbe potuto aspirare a una carriera più
fulgida di quello che è stata, ma il suo pregio è di essersi saputo
accontentare e, soprattutto, fare tesoro dell’umiltà che lo ha sempre
contraddistinto. Saggio? Forse. Prudente? Abbastanza. Generoso? Quanto
basta. Iracondo? Quasi mai. Autorevole? Chiedete ai suoi ex compagni di
squadra. Permaloso? Un po’. Invidioso? Per nulla. Orgoglioso? Al
massimo. Diffidente? Come un lupo. Leale? Molto. Sincero? Raramente il
contrario.
“Dopo l’esperienza di Brindisi in C1 – esordisce l’ex capitano
rossonero – andai al Barletta in serie B. Rimanevo in Puglia e salivo
di categoria, davvero niente male. Avevo compagni di squadra come
Evaristo Beccalossi, come Vincenzi, come Guerini, Panero, Nardini.
Giocai 25 gare e segnai due gol: all’epoca ero una seconda punta,
svariavo su e giù lungo la fascia, ero giovane e correvo molto.
L’allenatore era Giancarlo Ansaloni, fu lui a lanciarmi nel calcio che
conta ed era quotatissimo in serie C. Dopo Barletta, lui scese di
categoria, ma in una piazza straordinaria: Salerno. Mi chiamò e io non
potei rifiutare. Ricordo l’arrivo a Salerno per la presentazione alla
città come uno dei momenti più esaltanti della mia vita: c’erano
cinquemila persone ad assistere alla partitella del giovedì. Quello,
per me, era il calcio vero. Vincemmo il campionato e salimmo in B.
Nelle prime cinque partite segnai quattro gol e divenni l’idolo della
città. Purtroppo la sfortuna era in agguato. Mi ruppi, infatti,
caviglia e perone destri e il rammarico, oltre al dolore e alla
tristezza, fu infinito. Seppi, infatti, che l’allora direttore sportivo
del Napoli di Maradona, Giorgio Perinetti, venne a trovarmi e mi disse
che avevano quasi concluso per l’acquisto del cartellino, poi, invece,
c’era stato quel maledetto infortunio. Per non demoralizzarmi aggiunse
l’invito a rimettermi alla svelta che il passaggio in maglia celeste ci
sarebbe stato l’anno successivo”.
“Mi ero fatto male da solo, questa è la verità. Indossavo, infatti,
scarpette particolari, con tredici tacchetti, ma tutti in ferro. Così,
in quella circostanza, la scarpa si piantò nel terreno e successe quel
che successe. Ho ancora una foto dove si vede chiaramente perone e
caviglia che vanno per conto proprio. Mi fermai otto mesi. A Salerno
c’erano circa 14-15mila abbonati. Una volta promossi in B, la stagione
dopo l’infortunio rientrai nei ranghi e, in una gara contro l’Ancona,
allo stadio Areti appena inaugurato, segnai il primo gol della sua
storia. Quel giorno avevo tanta di quella rabbia in corpo che non
vedevo l’ora di esplodere. Così, ricordo benissimo, quando mi arrivò
una palla alta a centrocampo, chiusi gli occhi e calciai verso la
porta: fu l’apoteosi, un gol incredibile. Vincemmo uno a zero. A fine
anno avevo collezionato 35 presenze e sei gol. Eravamo nel 1989. A
Salerno, in C1, conobbi una persona straordinaria, che parlava
pochissimo, ma che lasciava il segno quando apriva bocca e, in
particolare, insegnava con l'esempio. Era Agostino Di Bartolomei, l’ex
capitano della Roma di Liedholm. Di Bartolomei era a fine carriera, ma
per me fu un maestro di vita. Era il capitano – parlava poco, ma nello
spogliatoio quando parlava lui tutti stavano zitti – Rammento che ad un
certo punto della stagione fu messo in discussione dall’allenatore. Non
avevo mai conosciuto uno con un carisma come il suo, capace, alla sua
età e dopo i suoi successi, di rimettersi a correre più dei diciottenni
per riconquistarsi il posto. Diede il massimo in allenamento e in due
settimane riconquistò il posto e fu determinante per la promozione in
serie B. Dopo Salerno, nel 1992, fui acquistato dall’Ancona, sempre in
serie B. Avevo poco più di vent’anni o giù di lì. Ero la terza punta e
davanti e accanto a me c’era gente come Tovalieri, Bertarelli, Gadda.
L’allenatore era Vincenzo Guerini, l’ex mediano della Fiorentina.
Collezionai, tra spizzichi e bocconi e qualche gara intera, ben 25
presenze e quattro reti”.
“Ero un ragazzo che stava vivendo il sogno di migliaia di suoi
coetanei. Giocavo al calcio e, per di più, mi pagavano. Cosa potevo
chiedere di più? Fino a poco tempo prima vivevo nella mia cameretta
con, appese alle pareti, le immagini del mio idolo, Maradona. E ora, in
quella gara di Coppa Italia che mi apprestavo a giocare da titolare con
il Barletta proprio contro il Napoli, me lo trovavo di fronte. Avevo
litigato con gli amici per difendere quell’uomo e adesso, ricordo
benissimo, me lo ritrovavo davanti nel sottopassaggio del San Paolo.
Restai allibito, incapace di dire anche solo una parola, lo osservavo e
non riuscivo ad aprire bocca. Lui mi guardò più volte forse
domandandosi che avevo da guardarlo così, ma io ero, letteralmente,
incapace di dire o fare qualunque cosa. Lui entrò nel secondo tempo e
io mi volli levare una soddisfazione: sbucando improvvisamente da
dietro, gli tolsi il pallone passandolo a un compagno. Rimase stupito.
Tornando ad Ancona, la società non mi riteneva ancora pronto, così mi
diede in prestito al Monza in serie B. A Monza pagai fino in fondo
tutta la mia inesperienza. Fu il momento più brutto di tutta la mia
carriera. Non mi trovavo bene con la città, con la gente, il clima era
orribile, ambiente e mentalità agli antipodi rispetto alle mie vedute.
Ero sempre triste. Stavo male. Giocai 15 gare e segnai un solo gol”.
Al. Grandi
(Fine seconda parte)